Al momento stai visualizzando Perché quello che subiscono i palestinesi è un sistema di Apartheid

Perché quello che subiscono i palestinesi è un sistema di Apartheid

  • Autore dell'articolo:
  • Categoria dell'articolo:Sociologia
  • Tempo di lettura:10 minuti di lettura

Pubblicato su L’Indipendente il 20/5/2021

Il famigerato documento coloniale britannico, noto come “Dichiarazione Balfour” del 1917, riconobbe una “patria per gli ebrei” in Palestina senza nemmeno pronunciare una parola sul destino futuro dei suoi cittadini arabi. Essi rimasero la maggioranza fino alla loro grande espulsione nel 1948, in quella che fu nota come “Nakba” (Catastrofe), che coinvolse 700.000 palestinesi.

Adesso, circa 5 milioni sono i palestinesi che vivono nello Stato di Palestina divisi tra la Striscia di Gaza e la Cisgiordania. Secondo gli accordi internazionali e quanto stabilito dall’Onu, dovrebbero poter vivere in autonomia e secondo proprio governo ma nei fatti vivono sotto il controllo dello Stato di Israele. La Striscia di Gaza è una sorta di immensa prigione a cielo aperto: due milioni di persone che vivono un fazzoletto di terra circondato da un muro e strettamente pattugliato ai confini, incluso quello marittimo (anche questo in  violazione delle norme internazionali sui limiti territoriali delle acque), senza aeroporto e con frontiere semi sigillate. La Cisgiordania è un territorio diviso in due da quando Israele ha deciso di costruire un grande muro che l’attraversa e dove insistono decine e decine di insediamenti israeliani illegali, spesso circondati anch’essi da mura. A livello ufficiale la capitale dello Stato di Palestina sarebbe Gerusalemme Est (al-Quds, per gli arabi) ma di fatto si trova a Ramallah, vista l’occupazione israeliana della parte orientale di Gerusalemme, in conseguenza alla dichiarazione unilaterale di annessione effettuata a seguito della Guerra dei Sei Giorni del 1967. Da decenni Israele viola diverse norme del diritto internazionale, specie in riferimento ai diritti umani, e per questo ha subito la condanna in diverse risoluzioni dell’ONU – tra cui la Risoluzione 2334 del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite del 2016. Risoluzioni che però non hanno frenato i progetti di espansione israeliana né i metodi nei confronti dei palestinesi.

La discriminazione amministrativa

Una discriminazione, definita da molti una vera e propria apartheid che si giustifica attraverso una serie di dispositivi di legge approvati appositamente. Oggi, infatti, gli israeliani arabi hanno uno status giuridico diverso dai 350.000 palestinesi che vivono sotto occupazione israeliana a Gerusalemme Est, o da coloro che vivono nella Cisgiordania amministrata dall’Autorità palestinese oppure da quanti vivono nella Striscia di Gaza, sotto il controllo di Hamas – che Israele, gli Stati Uniti e molti altri paesi occidentali hanno designato come organizzazione terroristica.

Questo significa che i palestinesi a Gerusalemme Est vivono sotto l’autorità israeliana ma non possono votare alle elezioni nazionali israeliane o ottenere passaporti israeliani. I palestinesi della Cisgiordania e di Gaza vivono un’autonomia che però è in buna parte apparente, sottoposta a frequenti incursioni dell’esercito israeliano e con posti di blocco da dover superare tra un villaggio e l’altro. Sebbene gli arabi-israeliani siano formalmente cittadini di Israele e quindi, almeno in teoria, abbiano accesso agli stessi passaporti, elezioni, istruzione, assistenza sanitaria, infrastrutture e sicurezza degli israeliani ebrei, nei fatti non è così. Essi subiscono frequenti limitazioni della libertà e detenzioni arbitrarie (anche di minori), uccisioni extragiuridiche ed extragiudiziarie e una generale discriminazione razziale che si è andata ramificandosi nella società. Dal secondo insediamento di Benjamin Netanyahu a capo del governo, nel 2009, le cose sono andate peggiorando con l’emanazione di una serie di leggi che sono andate sempre più a limitare i diritti dei cittadini palestinesi d’Israele.

La legge dello Stato-Nazione ebraico

Una sorta di razzismo istituzionale che ha raggiunto il suo culmine con la così detta legge dello Stato-Nazione, emanata nel 2018 ma presentata e sostenuta fin dal 2011. Tale legge dichiara ufficialmente lo Stato d’Israele come Stato ebraico. Tre sono i punti fondamentali. Per prima cosa afferma che il diritto di esercitare l’autodeterminazione nazionale è unico per il popolo ebraico. Con questo si vuole affermare il diritto superiore dei cittadini ebrei nello sviluppo e nella determinazione del futuro dello Stato. Di conseguenza, i cittadini israeliani arabi non godono di tale diritto e devo passivamente osservare e accettare ciò che il popolo ebraico intende determinare. Come seconda cosa, la legge stabilisce che l’ebraico è l’unica lingua ufficiale d’Israele declassando l’arabo ad “altra lingua” che gode di “status speciale”. Infine, questa legge riconosce l’insediamento ebraico come valore nazionale e impone che lo Stato si adoperi per incoraggiare e promuovere l’istituzione e lo sviluppo di nuove colonie, nonostante numerose risoluzioni ONU contrarie intimino di fermare questo processo di espansione poiché contrario alle norme del diritto internazionale.

I primi due punti esposti della legge dello Stato-Nazione pongono i cittadini arabo-israeliani in una situazione di inferiorità giuridica. In altre parole, lo Stato ebraico riconosce ai propri cittadini palestinesi una cittadinanza di seconda classe, creando una gerarchia giuridica della cittadinanza, in maniera formalmente non dissimile a quella che il popolo ebraico dovette subire con le Leggi di Norimberga e le Leggi razziali fasciste che durante il nazi-fascismo ponevano i cittadini ebrei di Germania e Italia su un piano di inferiorità giuridica su base razziale. E non è un caso che nella società israeliana contemporanea abbiano molto seguito organizzazioni come Lehava, nata nel 2005, appartenete alla potente e ultraconservatrice destra religiosa israeliana, una di quelle organizzazioni che incitano l’odio e promuovono pogrom contro gli arabo-israeliani. Tra le altre cose, Lehava è favorevole ad una legge contro la mescolanza razziale che impedisca i matrimoni tra ebrei e non ebrei.

Due sistemi scolastici separati

Per quanto concerne l’istruzione, uno studio condotto nel 2001 da Human Rights Watch, dal titolo Second Class. Discrimination Against Palestinian Arab Children in Israel’s Schools, parlava della discriminazione subita dagli israeliani arabi. Il governo israeliano gestisce due sistemi scolastici separati, uno per i bambini ebrei e uno per i bambini arabi. Le scuole di quest’ultimi sono un mondo a parte rispetto la qualità delle scuole pubbliche che servono la popolazione ebrea maggioritaria di Israele. Le scuole per arabi sono edifici mal costruiti o fatiscenti, sovraffollati e senza organico adeguato in numero e competenza. La discriminazione contro i bambini arabi palestinesi colora ogni aspetto dei due sistemi. I numeri del ministero dimostrano che l’istruzione sottofinanzia il sistema scolastico dei giovani arabi rispetto a quello riservato agli ebrei. Il sistema privilegiato ottiene anche ulteriori fondi di finanziamenti misti tra pubblico e privato. Gli studenti palestinesi studiano un programma prescritto dal governo che risulta datato rispetto a quello fornito agli studenti del sistema scolastico ebraico: le materie comuni sono sviluppate con poca o nessuna partecipazione da parte araba e le pubblicazioni vengono tradotte con anni di ritardo rispetto all’uscita del materiale in lingua ebraica.

Se guardiamo ai palestinesi più in generale, con i diversi status che li caratterizzano, nel rapporto redatto da Amnesty International, per il biennio 2019-2020, inerente i Territori Palestinesi Occupati (Opt), si legge che «Israele ha mantenuto il suo blocco illegale sulla Striscia di Gaza, sottoponendo i suoi abitanti a punizioni collettive e intensificando la crisi umanitaria. Ha continuato a limitare la libera circolazione dei palestinesi attraverso posti di blocco e blocchi stradali. Le autorità israeliane hanno arrestato illegalmente in Israele migliaia di palestinesi degli Opt, trattenendone centinaia in detenzione amministrativa senza accuse né processo. La tortura e altri maltrattamenti dei detenuti, tra cui minori, sono stati commessi con impunità». Sono stati sfollati 900 palestinesi nei territori della Cisgiordania, le cui abitazioni sono state demolite dalle forze di occupazione israeliane. In questi due anni circa 4600 palestinesi provenienti dai territori occupati sono stati incarcerati perché non avevano il permesso per entrare in Israele per incontrare i parenti. 182 sono invece i minori che sono stati detenuti in prigione. Moltissime delle persone incarcerate hanno subito violenze e torture da parte del personale carcerario israeliano. Come si può leggere nel rapporto, lo scorso anno le autorità israeliane hanno deciso di trasferire forzatamente 36.000 cittadini beduini – nel deserto del Negev -in edifici costruiti con programma governativo poiché i villaggi in cui vivevano non erano riconosciuti come legali da parte di Israele.

La discriminazione abitativa e la violenza delle colonie

E veniamo quindi alla questione abitativa dei quartieri palestinesi di Gerusalemme Est e quindi alla discriminazione razziale istituzionalizzata che ha prodotto l’innescarsi del conflitto attuale: l’espulsione forzata degli arabi dall’intera città. Quello che sta accadendo nel quartiere di Sheikh Jarrah è una continuazione dei progetti di “giudaizzazione” di Gerusalemme poiché l’obiettivo principale di Israele è controllare l’intera area che circonda la Città Vecchia, conosciuta come il “Bacino Sacro“. Leggi israeliane che consentono agli ebrei di reclamare le proprietà dei palestinesi hanno permesso ai coloni di avere sempre il pieno sostegno dei tribunali israeliani. Il governo israeliano le chiama semplicemente “dispute immobiliari“, un termine disonesto che cela espulsioni forzate. Inutile dire che i palestinesi che hanno perso case e proprietà a Gerusalemme ovest o in qualsiasi altra parte d’Israele non hanno tale rimedio giuridico. Così, 20.000 case palestinesi sono attualmente a rischio demolizione a Gerusalemme.

I tribunali israeliani hanno emesso diverse sentenze di sfratto negli ultimi anni, la più recente delle quali è stata il 2 marzo ordinando a tre famiglie di lasciare le loro case, e prima ancora il 6 febbraio, ordinando ad altre quattro famiglie di andarsene; ogni famiglia è stata anche multata di 90.000 sicli israeliani (circa 22.500 dollari) in spese legali e giudiziarie.

In altri contesti non ci si sarebbe attardati a definire una tale situazione sociale e umanitaria come “Stato di apartheid“, in cui ci sono cittadini privilegiati e una minoranza ritenuta inferiore e per cui valgono leggi, tempi e spazi diversi rispetto al resto della Nazione. Perché ciò non avviene nei confronti di Israele, che anzi continua ad essere definita l’unica democrazia del medio oriente? La storia, in qualche modo, ne chiederà conto.