Pubblico in maniera integrale e senza alcuna modifica un mio scritto prodotto nell’ambito del corso magistrale di Sociologia del Lavoro e delle Organizzazioni, del Prof. Matteo Villa, nell’anno accademico 2015/2016. Questo elaborato intende affrontare lo studio sociologico delle organizzazioni utilizzando una chiave di lettura psicologica, nel tentativo di produrre una base di partenza per uno studio interdisciplinare delle dinamiche che muovono le organizzazioni umane.
Introduzione
K. Lewin, in un passaggio del suo libro La teoria, la ricerca, l’intervento, spiega come, secondo il suo parere, la psicologia debba rivendicare con forza l’utilizzo di concetti e terminologie confacenti a tale ambito di studi, sia quando interviene nel suo peculiare campo di studio sia quando questa voglia esplorare campi affini, come ad esempio, quello sociologico.
Nel libro di G. Bonazzi, Come studiare le organizzazioni, vengono riportate alcune delle teorie espresse in tale ramo della sociologia. Alcune di queste, le più recenti, hanno come proprio oggetto di studio aspetti che interessano maggiormente la parte soggettiva dello studio organizzativo: vengono definiti morbidi (soft), in contrasto con quelli hard (duri), proprio perché puntando ad una dimensione più introspettiva dell’individuo e del rapporto che ne viene con l’organizzazione.
L’intento è quello di aprire un’ulteriore finestra di riflessione, o quanto meno, prendere spunto da quanto ha detto Lewin, in merito alla possibilità di un approccio sociologico che tenga anche conto della dimensione psicologia, mantenendone i termini e integrandone i concetti. Da tale spunto inizia questa breve riflessione che cerca di tenere insieme concetti psicologici e sociologici cercando, laddove risulta possibile, di integrarne gli aspetti.
C. G. Jung è uno dei protagonisti della riflessione in merito, con il suo concetto di inconscio collettivo e di archetipo. Nello spiegare questi due concetti, spesso perfino apparentemente sovrapponibili, verranno citate comparazioni che altri studiosi hanno fatto nei riguardi di questi – anche da campi non proprio affini –, nonché le sue dirette spiegazioni. Dato che anche Jung ha orbitato attorno alla psicologia della Gestalt, di cui Lewin fu grande esponente, oltre che esporre alcuni concetti di quest’ultimo, vi sarà un confronto tra il pensiero dei due autori.
Infine, in merito allo studio sociologico delle organizzazioni, viene esposta la teoria espressa da E. Schein, ovvero, un approccio soft che si concentra sullo studio della cultura nelle organizzazioni e che lui chiama cultura organizzativa; lo scopo è cercare di aprire una riflessione che tenga conto della dimensione psicologica nell’analisi di tali fenomeni sociali, richiamandone i concetti.
Cosa è l’inconscio collettivo?
Jung definisce l’inconscio come collettivo per due motivi; il primo è per indicarne immediatamente le caratteristiche, il secondo, in accordo con il primo motivo, era di poter distinguere ciò che lui designava come inconscio rispetto alle posizioni dell’amico e collega Freud. Quest’ultimo considerava la parte inconscia come mera appendice personale, come la definì Jung. Per questo Freud riteneva che le cause patologiche fossero esclusivamente di carattere personale. Jung si differenzia dal collega definendo ciò che lui intendeva con inconscio collettivo, molto diverso dall’inconscio personale, che esiste in virtù della coscienza[1].
L’inconscio collettivo, a differenza dell’appendice personale, non è un costrutto residuale emozionale prodotto della coscienza bensì è impersonale e universale.
“Mentre l’inconscio personale è formato essenzialmente da contenuti che sono stati un tempo consci, ma sono poi scomparsi dalla coscienza perché dimenticati o rimossi, i contenuti dell’inconscio collettivo non sono mai stati nella coscienza e perciò non sono mai stati acquisiti individualmente, ma devono la loro esistenza esclusivamente all’eredità. L’inconscio personale consiste soprattutto di complessi, il contenuto dell’inconscio collettivo, invece, è formato essenzialmente da archetipi”[2].
Nel tentativo di definire il concetto di inconscio collettivo, e di archetipo, può risultare utile ripercorre brevissimamente la storia evolutiva di tale idea. Antonio Vitolo racconta, in prefazione all’edizione integrale di Bollati Boringhieri, l’evoluzione temporale della ricerca junghiana facendo così emergere alcuni momenti salienti di tale percorso. Jung utilizza l’espressione “immagini primordiali” in “Trasformazioni e simboli della libido” del 1911; tale espressione non è nuova bensì tratta dall’epistolario dello storico svizzero J. Burckhardt. Solo nel 1919 Jung utilizza per la prima volta, in “Istinto e inconscio”, il termine archetipo [tale parola è una composizione di derivazione greca da arché, principio, origine, e typos, forma, ma anche immagine]. In “Tipi psicologici” ( 1921 ) Jung aggiunge alla definizione di archetipo la voce “immagine”; in tal modo egli “ designa come archetipo o immagine primordiale una forma, non un contenuto, di cui sostiene la natura autogenetica”[3]. Nella “Struttura della psiche” (1927/1931) Jung torna con decisione ad affermare la natura ereditaria dell’inconscio collettivo che è tesoro “..di possibilità rappresentative non individuale, ma comune a tutti gli uomini e forse a tutti gli animali, e costituisce la vera e propria base della psiche individuale. Viene così affermata inequivocabilmente la struttura assolutamente priva di contenuto dell’archetipo”[4]. Un vasto corollario di esempi antropologici è presentato da Jung in “Gli archetipi dell’inconscio collettivo” del 1934; viene qui esposto il conflitto (apparentemente) inconciliabile tra inconscio e coscienza. Jung indica, nel processo che lui chiama individuazione, quel percorso del “divenire coscienti” in cui l’inconscio collettivo e l’archetipo giocano un ruolo di grande spessore; benché difficilmente riconoscibile. Inoltre, in tale occasione, pone l’archetipo come riformulazione esplicativa dell’éidos platonico. Nel 1936 Jung tiene una conferenza dal nome “Il concetto d’inconscio collettivo” in cui si collega a formule teoriche di altri campi per spiegarne meglio il significato, e per fornire uno schema che fosse riconoscibile anche a quanti nel mondo accademico lo accusavano di anti-scientificità e misticismo.
Potremmo dire che l’intera idea di inconscio collettivo è pervasa dal concetto di archetipo, tanto da divenire un tutt’uno. L’inconscio collettivo, e il suo contenuto archetipico, è di carattere universale e pre-esistente all’esperienza personale. E’ come se l’archetipo vivesse di vita propria e fosse dotato di potenza generatrice in grado di produrre ciò che in esso non era contenuto. Inoltre, l’archetipo, complementare alle forze istintuali proprie di ogni vivente, comporta un agire orientato ad uno scopo.
I collegamenti concettuali di Jung con le altre discipline
Lo stesso Jung, nel 1936, nel tentativo di chiarire il concetto d’inconscio collettivo – e ciò di cui è composto, l’archetipo – fa uso di comparazioni con concetti espressi da altri studiosi in campi affini.
- Rappresentazioni collettive: concetto espresso da Lévy-Bruhl – antropologo, etnologo e filosofo francese – nel suo studio riguardante la mentalità religiosa dei popoli arcaici, detti anche primitivi.
“L’espressione représentations collectives, che Lévy-Bruhl usa per designare le figure simboliche delle primitive visioni del mondo, si potrebbe usare senza difficoltà anche per i contenuti inconsci, poiché riguarda quasi la stessa cosa. Le “dottrine primitive delle origini”… trattano degli archetipi in speciali accezioni. Certamente non si tratta più di di contenuti dell’inconscio: essi si sono già trasformati in formule consce insegnate secondo la tradizione soprattutto in veste di “dottrina segreta”, tipica forma di trasmissione di contenuti collettivi, originariamente derivati dall’inconscio.. Altra ben nota espressione degli archetipi sono il “mito” e la “favola”. Ma anche qui si tratta di forme appositamente coniate, trasmesse nel corso di lunghi periodi. Il concetto di archetipo conviene quindi soltanto indirettamente alle représentations collectives…”[5].
- Categorie dell’immaginazione: questo concetto fu espresso da H. Hubert – sociologo e antropologo francese – e da M. Mauss – anch’egli francese, sociologo, antropologo e storico delle religioni – nell’ambito dei loro celebri studi di antropologia nel campo della magia e delle credenze religiose, nonché, sul significato del sacrificio e del dono.
- Pensieri elementari: tale concetto è stato elaborato da Adolf Bastian – etnologo tedesco – precursore di quello che diverrà il concetto di unità psichica dei tipi umani. L’idea dello studioso era quella che gli individui condividano una base mentale al di là di tutte le possibili differenze fisiologiche, biologiche e sociali. La contingenza storico-ambientale, afferma Bastian, influisce sulla differente elaborazione locale di quello che chiamava “pensiero elementare”, e che definì come “mente collettiva”.
Benché Jung fosse un accanito sostenitore dell’autonomia della psicologia nello studio dei processi inconsci, dunque contro ogni approccio di tipo filosofico e biologico, cita un ulteriore nozione da poter comparare con ciò che è il contenuto dell’inconscio collettivo, l’archetipo. Jung, infatti, fa riferimento al così detto pattern of behaviour (modello di comportamento) usato in biologia.
Collegamenti concettuali post-Jung
Claudio Widmann, in Principi archetipici e principi bionomici – relazione presentata al Seminario Nazionale ICSAT, Italian Committee for the Study of Autogenic Therapy and Autogenic Training –, compie ciò che Jung aveva solo timidamente accennato, ovvero, comparare il concetto psicologico di archetipo con quello biologico. Nel fare ciò fa riferimento ai così detti principi bionomici, risalenti ad un filone della biologia nelle cui fila annoverava von Uexkull, Roux e Rothschuh. Tale studiosi asseriscono che “..l’organico sia in parte regolato fin dall’inizio da un insieme di leggi ( nomos ) vitali ( bios ) ovvero da un ordine bionomico”[6].
Caratteristiche dei principi bionomici (Widmann 2005):
- sono universali e sovra-individuali;
- sono definite all’origine, biologicamente;
- vengono rispettate autogenamente;
- implicano un progetto di sviluppo;
- si articolano lungo una linea polifasica;
- seguono un decorso finalistico e sensato.
Le caratteristiche che Jung attribuisce all’archetipo (Widmann 2005):
- è collettivo: si applica a tutti gli individui;
- è aprioristico: precede l’esperienza ed è trasmesso;
- è numinoso: possiede un’energia dinamica che rapisce la soggettività [ “ dynamis = forza, a un’interpretazione cioè del cambiamento come risultato dell’azione delle forze psicologiche ”[7] ]
- è poietico: produce sviluppo e struttura l’evoluzione psichica;
- è polare: abbraccia stadi e fasi diversi;
- è teleologico: la sua manifestazione struttura processi finalizzati a uno scopo.
Si può notare come il concetto di archetipo possa avere più accezioni, in uno spettro che va da quella idealistica a quella materialistica, con tutto ciò che sta nel mezzo. Per semplificare, potremmo dire che per quanto riguarda la prima, in essa potremmo trovare tutte quelle concezioni radicalmente immateriali dell’archetipo, inteso come “struttura pura”[8] o come “idea platonica”; in riferimento alla seconda possiamo dire che tali concezioni sono sottilmente contaminate di realtà fisica ed empirica, intendendolo come “pattern of behaviour” o come “immagine”.
Che sia di natura fisica o metafisica, biologica o psicologica, Jung concepisce sempre l’archetipo come una pura astrazione. La sua qualità essenziale è l’assenza; è quella di essere una non-forma, un vuoto di contenuto. L’archetipo in sé non è pensabile se non come una assenza e non lo si può cogliere in nessun modo. Contemporaneamente, però, esso in-forma, configura, plasma, orienta; come dice Jung possiede energia numinosa e facultas praeformandi. Se l’archetipo-in-sé non è conoscibile, è tuttavia immaginabile attraverso le sue manifestazioni contingenti, che – si badi bene – non sono archetipi, ma sue specificazioni contingenti e parziali; non può essere indagato direttamente, ma se ne possono conoscere le proprietà indagando i suoi effetti. L’archetipo-in-sé è un vuoto denso, un’assenza che dà forma alla presenza, che non appartiene al mondo fenomenico, ma che si esperisce attraverso i fenomeni.[9]
Molti sono addirittura i collegamenti fatti con altri settori della conoscenza odierna. Fisica delle particelle, ricerche sulle particelle subatomiche, fisica quantistica e quantizzazione dei campi.
Il campo. Teoria dei campi e teoria dei sistemi
In fisica, un campo è una grandezza esprimibile come funzione della posizione nello spazio e del tempo, o nel caso relativistico nello spaziotempo[10]. La teoria dei campi è irrinunciabile per la fisica e si occupa dello studio delle dinamiche dei campi. Ormai da tempo sappiamo dell’esistenza di campi elettromagnetici o gravitazionali, ma i campi di cui gli scienziati si interessano maggiormente oggi, sono campi di forma e non di forza. I campi di forza, come ad esempio quello elettromagnetico, benché risultino invisibili li notiamo negli effetti che producono: un magnete organizza un campo tramite una forza invisibile e apparentemente inattiva, almeno che non lo si cosparga con della limatura di ferro: in quel momento si scopre che la limatura non si dispone casualmente, bensì è organizzata secondo le forze presenti nel campo. Dunque, i campi che oggi interessano gli studiosi, quelli di forma, non possiedono nemmeno il carattere invisibile e impalpabile di quelli di forza, che sono già, infatti, un aspetto della fisica. I campi di forma “sono una pura potenzialità creatrice”[11]. Tale concetto si avvicina alla più metafisica accezione dell’archetipo psicologico. Laszlo, uno dei massimi esponenti della teoria dei sistemi, e ritenuto suo fondatore, offre un’idea di campo che sembra esser sovrapponibile con l’accezione più metafisica di archetipo che è stata fornita.
“…il campo è da immaginarsi come vacuum-plenum. E’ vuoto assoluto (vacuum) in quanto precede l’esistenza, ma è contemporaneamente pieno (plenum) in quanto sede di potenzialità auto-organizzatrice”.[12]
Il filosofo ungherese “intende il campo come matrice creativa della vita, performante non di questa o quella forma della materia, ma della materia stessa”.[13]
I campi di forma, al contrario dei campi di forza che si organizzano in relazione allo spazio-tempo, prescindono tali dimensioni. Gli stessi campi di forza – come, ad esempio, quello elettromagnetico o gravitazionale – sarebbero quindi una manifestazione fisica dei campi preformanti.
L’inconscio collettivo sembra dunque poter essere paragonato a un campo di forma, ovvero, un campo preformante.
K. Lewin e la teoria del campo
Il concetto di campo è stato applicato anche alla psicologia. In tale ambito il campo viene a prefigurarsi come un insieme di forze psicologiche interagenti. Tale concetto è stato particolarmente utilizzato e sviluppato dalla psicologia della Gestalt (dal tedesco Gestalt = forma; Gestaltpsychologie, psicologia della forma o rappresentazione). Per gli psicologi della Gestalt, in contrapposizione con gli strutturalisti, la mente non percepisce singoli stimoli, piuttosto, ne coglie l’insieme. La mente, in altre parole, non coglie le forze psicologiche prese singolarmente ma la continua e reciproca relazione che tra di esse intercorre.
K. Lewin fu un importante esponente della psicologia della Gestalt, alla quale dette un grande contributo sviluppando la così detta teoria del campo. Secondo tale studioso, per comprendere il comportamento di un individuo è necessario capirlo nella sua specificità e nella situazione nella quale egli opera, ovvero, capirlo nel suo “spazio di vita”. Per spazio di vita bisogna intendere l’insieme dei fattori soggettivi e dei fattori fisico-sociali che caratterizzano l’individuo. “Le proprietà dello spazio di vita dell’individuo dipendono in parte dallo stato di quel particolare individuo in quanto prodotto della sua storia, e in parte dalle condizioni circostanti non psicologiche”[14]. Dunque, lo spazio di vita coincide con il campo in cui è immerso l’individuo stesso. Infatti, il campo è da considerarsi un sistema dinamico interagente; una totalità di fatti coesistenti nella loro interdipendenza. Il comportamento si costituisce in funzione dello spazio di vita della persona. Da qui la nota formula C= f (PA), in cui il comportamento è dovuto alla funzione PersonaAmbiente (spazio di vita). In altre parole, il comportamento non è che una funzione del campo.
Ora, possiamo, forse, con le dovute cautele, fare alcune comparazioni. Mettiamo dunque a confronto il concetto di inconscio collettivo – che può esser considerato come un campo senza forma e contenuto e che precede il sorgere di altri campi – con il concetto di campo espresso da Lewin.
Procedendo in questo modo, dunque, potremmo dire che il comportamento può esser visto come funzione di un “a-priori” (il campo) rispetto al “qui ed ora” del manifestarsi del comportamento stesso. Mentre l’inconscio collettivo, e l’archetipo, è preformate della coscienza umana, il campo lo è per il comportamento dato in un preciso spazio-tempo.
Benché il primo abbia ricevuto diverse accezioni, quello che è più rappresentativo del pensiero junghiano è certamente quello di natura più prettamente metafisica, come “attivatore” di forze psicologiche – e che prescinde lo spaziotempo –, il secondo è composto di forze miste: psicologiche e ambientali (metafisiche e fisiche). L’inconscio collettivo, tramite l’archetipo, porta alla coscienza ciò che in esso non era contenuto in maniera determinata, bensì come pura potenzialità. Solamente nell’attimo in cui avviene il riconoscimento, forma e contenuto, man mano, si creano nella coscienza; in tal modo, l’archetipo non è più tale ma il suo venir meno determina lo sprigionamento di forze non più solo potenziali, e che continuano autonomamente a dar forma e contenuto a ciò che non ne aveva. Così, in altre parole, il costante rapporto di interdipendenza tra le forze stesse è il processo di costruzione cosciente (compresa l’appendice dell’inconscio personale) di forma e contenuto.
Per quanto riguarda il concetto di campo espresso da Lewin, e la sua relazione al comportamento umano, non possiamo dire che non via sia forma e contenuto se pur si considera il carattere aprioristico del campo stesso rispetto al comportamento in un dato spazio-tempo, anzi, ne costituisco le fondamenta; tale forma e contenuto viene però a comporsi e scomporsi nel continuo esperire del soggetto/oggetto nell’interrelazione con le forze che compongono il campo. Quest’ultimo può esser dunque pensato come contenitore di potenzialità di comportamento il cui solo manifestarsi ad un momento dato permette di comprende da cosa ciò sia dipeso, e magari quali siano state le forze costituenti il campo che hanno permesso il tal manifestarsi (piuttosto che un altro). Il comportamento essendo funzione del campo è una potenzialità che si manifesta nell’interazione d’interdipendenza delle forze costituenti il campo stesso. [forse per questo nasce l’esigenza della ricerca-azione, stare dentro ai fatti permette di fare ciò che non si può fare altrimenti, analizzare le interazioni tra le forze interdipendenti – nel progredire dello spazio-tempo – affinché si produca un comportamento in un dato momento]
Ma ciò che caratterizza lo sviluppo lewiniano della teoria del campo è di aver esteso tale concetto all’attenzione dei processi sociali e di gruppo. Vediamo come ciò possa aiutare il procedere di tale analisi.
Secondo il pensiero di Lewin, e dell’intera psicologia della forma, il gruppo sociale è da considerarsi nella sua totalità come qualcosa che va oltre il semplice sommarsi degli elementi che lo compongono (ancora una volta in contrasto con la tesi strutturalista – come avvenuto per quanto concerneva la percezione mentale); da qui il motto: “il tutto è più della somma delle singole parti”. Infatti, una totalità dinamica ha caratteristiche peculiari sue proprie che son differenti dalla somma delle caratteristiche di ogni singolo elemento. A detta di Lewin “i gruppi sono delle totalità sociologiche; l’unità di tali totalità può definirsi, dal punto di vista operativo, analogamente all’unità di una qualsiasi altra totalità dinamica, vale a dire secondo l’interdipendenza delle sue parti”[15]. Dunque un gruppo è da considerarsi come un individuo, prodotto dell’interdipendenza delle sue parti. Tale tipo di relazione permette al soggetto di essere qualcosa di più e di diverso dalla semplice somma dei suoi elementi. Così un gruppo sarà un sistema di forze, esattamente come l’individuo, psicologiche e fisico-sociali, interne ed esterne. Il gruppo è un’unità dinamica caratterizzata dal fatto che le forze interne – rappresentate dai membri – hanno una loro soggettività, esperiscono la realtà dal loro campo.
In merito al comportamento assunto dal gruppo, e dagli individui che lo compongono, Lewin fornisce tre tipi possibili di dinamiche interne: laissez faire, autoritaria, democratica.
Vediamo qui di seguito cosa comporta, in riferimento al comportamento e all’apprendimento, un’atmosfera di tipo autoritario piuttosto che una di tipo democratico, integrando alla spiegazione di Lewin quella fornita da Jung.
Quando siamo in presenza di un gruppo che vive in un’atmosfera di tipo autoritario, il procedere degli eventi è contraddistinto dall’imposizione, dalla costrizione e anche dalla coercizione. I membri del gruppo che subiscono tali dinamiche sono passivi di fronte a ciò che accade loro e al gruppo intero. Incapaci di ogni iniziativa e privati della partecipazione, i membri del gruppo, non sono in grado di imparare.
Per l’atmosfera autoritaria potremmo dire che la natura numinosa dell’archetipo da cui essa ha preso forma e contenuto, attira la soggettività verso un’immagine che si fa sempre più chiara e cristallizzata. Man mano, la forma è come se fosse scavata in una roccia di granito, e il contenuto viene sempre più a coincidere con la forma stessa. [si pensi alla piramide, ormai divenuta simbolo di un potere autoritario]. In questo caso il soggetto diviene impotente e passivo e non più in grado di comprendere. Per tali motivi viene a mancare la possibilità di apprendimento, dato che si paralizza il processo di generezione cosciente di forma e contenuto [è interessante la critica che Jung rivolge alla Chiesa Cattolica, poiché non ritenuta più capace di essere fonte di apprendimento, in quanto, in essa forma e contenuto si sono cristallizzati e venuti a coincidere (si prega la statuetta, il cui contenuto è la forma di essa); in tal modo l’apprendimento non è più possibile].
Il gruppo che opera in atmosfera democratica adotta una condotta partecipativa, in maniera volontaria e responsabile. Il processo democratico è un processo di apprendimento che non può essere imposto. Senza democrazia non c’è apprendimento e senza questo non può veramente formarsi un’atmosfera democratica.
In questo caso la numinosità dell’archetipo da cui essa si è originata fa si che la forma non divenga così netta, come nell’altro caso; piuttosto, in democrazia, la forma è variabile come è variabile il suo contenuto. Forma e contenuto sono fluidi, cambiano nel corso del tempo [simbolo di tale dinamicità potrebbe essere la nuvola]. Al contrario della passività che si riscontra nell’individuo appartenente ad un gruppo gestito in maniera autoritaria, nel caso vi sia un’interazione di tipo democratico, affinché questa venga “alimentata”, occorre che l’individuo partecipi al continuo costituirsi di forma e contenuto. Proprio questo continuo processo di creazione di forma e contenuto, da parte degli individui appartenenti al gruppo, permette il parallelo processo di apprendimento; se ciò non avviene, lo spettro dell’immagine scolpita nella roccia si fa sempre più vivido. Potremmo dire che il perdurare dell’atmosfera democratica necessita del continuo prodursi e riprodursi di forma e di contenuto come risultato della “partecipazione volontaria e responsabile”[16] dei membri del gruppo.
Da questo possiamo capire che, come spiega lo stesso Lewin, “un processo di trasformazione in senso democratico richiede un tempo molto maggiore che non il processo inverso, dalla democrazia all’autocrazia”[17]. Infatti, richiede minor tempo il cristallizzarsi di un’immagine e di un significato, tramite l’imposizione, che non un continuo divenire di forma e di significato come risultato dell’interazione spontanea degli elementi che compongono il gruppo. Infatti, come spiega Lewin, il fattore “apprendimento” è di vitale importanza per il costituirsi e il perdurare di un’atmosfera democratica.
Vediamo dunque, ancora una volta, che il comportamento è una potenzialità contenuta nel campo, di cui è, appunto, funzione; non è una funzione determinata ma, piuttosto, una funzione di probabilità su cui influiscono le forze in gioco nel campo.
Schein e il concetto di cultura organizzativa
Adesso, l’intenzione è di vedere come una delle teorie proposte dal manuale di G. Bonazzi (Come studiare le organizzazioni) possa esser letta tramite una chiave psicologica.
La corrente teorica che qui verrà presa in considerazione è relativa ai così detti approcci morbidi (o soft). Dato che tali filoni di pensiero si concentrano sullo studio delle dinamiche culturali, simboliche, riflessive, e anche dei processi di conferimento di senso – in cui la dimensione psicologica gioca un ruolo rilevante – tali tipi di approcci dovrebbero prestarsi bene ad un analisi che richiami i concetti psicologici.
L’autore qui preso in questione è E. Schein, la cui tesi fondamentale è che studiare un’organizzazione equivarrebbe a studiarne la cultura. Dunque, secondo tale studioso, per studiare e comprendere un’organizzazione è necessario studiare la sua cultura; per questo motivo Schein parla di cultura organizzativa.
“..la cultura organizzativa è l’insieme coerente di assunti fondamentali che un dato gruppo ha inventato, scoperto o sviluppato imparando ad affrontare i suoi problemi di adattamento esterno e di integrazione interna, e che hanno funzionato abbastanza bene da poter essere insegnati ai nuovi membri come il modo corretto di percepire, pensare, e sentire in relazione a quei problemi”.[18]
Tale concetto di cultura si basa sul fatto che questa sia formata da un insieme di assunti fondamentali posti a diversi livelli di profondità.
Se letta sotto il profilo psicologico, questa divisione sembra riflettere quella delle regioni psichiche.
- Artefatti; “..prodotti immediatamente osservabili di una data organizzazione: la sua architettura, l’ arredamento, la tecnologia, ma anche il modo di comportarsi dei suoi membri come, il gergo, l’abbigliamento, la mimica, i simboli, i rituali. Per definizione tutti gli artefatti sono visibili ma non per questo facilmente decifrabili”[19].
Infatti, perché viene impiegato un certo tipo di architettura? E l’abbigliamento? E perché determinati simboli e rituali? [corrispondente alla regione conscia]
- Valori espliciti; “siamo nella sfera dei discorsi manifesti e accettati, che vengono spesso creati e fatti circolare dalla leadership con l’intento di rafforzare il senso di appartenenza e solidarietà, di individuare i pericoli e i nemici esterni, di chiarire e legittimare le scelte dell’organizzazione, di creare consenso tra i membri”[20]. [corrispondente all’appendice conscia]
- Assunti di base; “sono queste le convinzioni profonde e inespresse, date talmente per scontate da non attrarre l’attenzione e di cui spesso i membri non sono nemmeno del tutto consapevoli. Ma è proprio questo il livello più importante per capire l’anima dell’organizzazione, le motivazioni profonde delle azioni dei suoi membri e il modo in cui questi sono stati selezionati e plasmati”[21]. [corrispondente all’inconscio collettivo]
Gli assunti fondamentali di un’organizzazione si posso combinare tra di loro nei più svariati modi, dando origine a sistemi articolati e complessi. Tali forze interne devono sapersi combinare in maniera tale da soddisfare sempre il requisito fondamentale della coerenza interna. Tale coerenza si esprime in virtù del fatto che i vari livelli di profondità della cultura organizzativa devono avere un rapporto sensato, cioè privo di contraddizioni tra i suddetti livelli. Spiega Schein, che se tale requisito dovesse venir meno, il rischio è quello di una crisi che, eventualmente, può portare alla fine dell’organizzazione.
Volendo quindi dare una dimensione psicologica a tal tipo di analisi, considerando l’organizzazione come una totalità dinamica – come si evince anche dalla definizione che Schein fornisce dell’organizzazione – possiamo fare una comparazione con il singolo individuo (che ha la medesima proprietà di unità dinamica) e notare come la “salute” dell’organizzazione dipenda dall’equilibrio dei vari livelli di profondità da cui è costituita la cultura organizzativa. Infatti, Jung sosteneva che ciò che lui definiva processo di individuazione fosse volto al raggiungimento dell’equilibrio tra la forza cosciente e quella inconscia al fine di ottenere una sempre maggior conoscenza e consapevolezza; al contrario, quando lo squilibrio si fa consistente o prolungato, sorgono nell’individuo aspetti che possono divenire patologici.
Se consideriamo la cultura organizzativa come un campo, il comportamento del gruppo, e dell’individuo appartenente al gruppo, è una potenzialità che si manifesta come il risultato dell’interazione delle forze che costituiscono il campo stesso, ovvero, la cultura organizzativa. In altre parole, il comportamento risulterebbe essere funzione dell’interazione dei livelli di profondità che caratterizzano una cultura organizzativa.
Per concludere, verrà citato Jung in un suo confronto con la realtà a sé circostante. Un passaggio che può far chiarezza sul ruolo giocato dall’inconscio collettivo e l’archetipo, di come questi si materializzino nel mondo fisico tramite l’esperire cosciente, in una interazione di forze che influisce sui comportamenti, o addirittura che può influire sul pensiero stesso (che influirà su altri comportamenti, e così via). Siamo nell’anno 1936.
“In numerosi casi di nevrosi la causa del disturbo sta proprio nel fatto che alla vita psichica del paziente manca la cooperazione di queste forze motrici. Ciò nonostante, una psicologia puramente personalistica, riducendo ogni cosa a cause personali, fa di tutto per negare l’esistenza di motivi archetipici.. Non vediamo forse come un’interna nazione stia rivivendo un simbolo arcaico, si, perfino certe forme religiose arcaiche, e come quest’emozione di massa stia influenzando e rivoluzionando la vita dell’individuo in maniera catastrofica?”[22]
Jung, in virtù della sua visione della realtà – e dell’intera esistenza – inscindibile dalla propria base psichica, intende la nazione come aggregato psichico degli individui che la compongono.
“L’uomo del passato è vivo oggi in noi in una misura impensabile prima della guerra.. Se una nevrosi è, com’è stato finora, solo un affare privato, che ha le sue radici esclusivamente in cause personali, gli archetipi non rivestono alcun ruolo. Se invece è una questione di incompatibilità generale o una condizione, in altro modo dannosa, che produce nevrosi in un numero relativamente grande di individui, allora dobbiamo supporre la presenza di archetipi costellati. Poiché in un numero relativamente grande di casi le nevrosi sono non fatti privati, ma fenomeni sociali, dobbiamo supporre che anche in questi casi vengono costellati degli archetipi.. Se trent’anni fa qualcuno avesse osato predire che il nostro sviluppo psicologico tendeva a una reviviscenza delle persecuzioni medievali degli ebrei, che l’Europa avrebbe di nuovo tremato davanti ai fasci romani e al passo cadenzato delle legioni, che le persone ancora una volta avrebbero fatto il saluto romano come duemila anni fa, e che un’arcaica svastica, invece della croce cristiana, avrebbe attratto milioni di guerrieri pronti a morire, ebbene sarebbe stato accolto come un mistico folle. L’uomo del passato, che viveva in un mondo di représentations collectives arcaiche, è tornato a vivere in modo tangibile e dolorosamente reale, non solo in pochi individui squilibrati, ma in molti milioni di persone.”[23]
Conclusioni
Questa brevissima analisi, dovrebbe permettere almeno il sorgere di una riflessione su quanto sia importante l’utilizzo della psicologia – e dei concetti psicologici – nell’affrontare temi sociali, tanto quelli micro tanto quanto quelli macro.
Nel particolare, per quanto concerne lo studio delle organizzazioni, dovrebbe risultare molto stimolante e proficuo, per la sociologia, l’uso di una chiave di lettura psicologica.
Viene qui ribadita, dunque, l’esigenza espressa già da molti altri, tra i quali lo stesso Lewin, di espandere la visione dello studio sulle organizzazioni alla dimensione psicologica che permette di arrivare a un’analisi più profonda delle dinamiche che coinvolgono le organizzazioni e, dunque, gli individui.
In definitiva, se la psicologia – con i suoi concetti – venisse più spesso applicata alle ricerche di tipo sociologico, forse potremmo avere una più ampia comprensione dei fenomeni caratterizzati da un’insita natura duale, come quelli che coinvolgono lo studio delle organizzazioni che, infatti, non possono sfuggire alla polarità individuo/società.
Note
[1] Anche Freud col tempo converge verso l’analisi proposta da Jung sulla divisione delle regioni psichiche, elaborandone una propria. Da ciò deriva la successiva proposta sulla composizione della psiche umana in: Io, Es, Super-Io
[2] C. G. Jung, Gli archetipi dell’inconscio collettivo, Torino, Bollati Boringhieri, 1977, p. 69
[3] C. G. Jung, L’analisi dei sogni, Gli archetipi dell’inconscio, La sincronicità, Torino, Bollati Boringhieri, 2011, p. 94
[4] C. G. Jung, ivi, p. 95
[5] C. G. Jung, op. cit., Torino, Bollati Boringhieri, 1977, p.17
[6] C. Widmann, Principi archetipici e principi bionomici, Relazione presentata al Seminario Nazionale ICSAT, 2005
[7] K. Lewin, La teoria, la ricerca, l’intervento, Bologna, il Mulino, 2005, pp. 142-143
[8] Riferimento all’esempio comparativo che Jung pone tra l’archetipo e la struttura ipotetica di un cristallo immerso nell’acqua madre
[9] C. Widmann, op. cit., Relazione presentata al Seminario Nazionale ICSAT, 2005
[10] John Gribbin, Q is for Quantum: Particle Physics from A to Z, Londra, Weidenfeld & Nicolson, 1998, p. 138
[11] C. Widmann, op. cit., Relazione presentata al Seminario Nazionale ICSAT, 2005
[12] ibidem
[13] ibidem
[14] K. Lewin, op. cit., Bologna, il Mulino, 2005, pp. 143-144
[15] K. Lewin, ivi, Bologna, il Mulino, 2005, p. 246
[16] K. Lewin, ivi, p. 241
[17] ibidem
[18] G. Bonazzi, Come studiare le organizzazioni, il Mulino, Bologna, 2006, p. 159
[19] G. Bonazzi, ivi, p. 160
[20] ibidem
[21] ibidem
[22] C. G. Jung, op. cit., Torino, Bollati Boringhieri, 1977, p. 76
[23] C. G. Jung, ivi, Torino, Bollati Boringhieri, 1977, pp. 76-78
Bibliografia
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Lewin K., La teoria, la ricerca, l’intervento, Bologna, il Mulino, 2005
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