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Ancora privatizzazioni: stavolta sono i sovranisti a farle. Intervista al prof. Alessandro Volpi

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  • Categoria dell'articolo:Sociologia
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Il governo dei sovranisti guidato da Giorgia Meloni cede pezzi strategici dello Stato a società straniere, soprattutto ai fondi d’investimento statunitensi, continuando sulla scia ormai tracciata fin dagli anni Ottanta e che ciclicamente torna a battere. Per Ho intervistato il professor Alessandro Volpi, professore di Storia contemporanea presso la Facoltà di Scienze Politiche all’Università di Pisa, ed espero di questioni economiche, la cui ultima pubblicazione è “I Padroni del mondo. Come i fondi finanziari stanno distruggendo il mercato e la democrazia“. Per questioni di spazio, sul nuovo mensile de L’Indipendente è stata pubblicata una versione ristretta dell’intervista. Questa è la versione integrale.

Intervista

Michele Manfrin: Le privatizzazioni sono un fenomeno di lungo corso in Italia e non iniziano di certo con il governo Meloni. Le differenze però, rispetto al passato sono due. La prima è che questa volta le privatizzazioni vengono effettuate da un governo che si definisce sovranista e che quindi dovrebbe più di tutti difendere l’interesse nazionale. La seconda, invece, sulle giustificazioni che vengono poste. In passato il processo di privatizzazioni è stato condotto con la motivazione del fatto che le aziende statali fossero in perdita o che erano un peso per le casse statali e che sarebbe quindi stato più efficiente affidare la gestione ai privati e al mercato. Adesso invece si cedono aziende, o pezzi di aziende, che comunque sono in attivo e che generano enormi profitti. Quindi qual è il senso di tutto questo?

Alessandro Volpi: In relazione al tema del sovranismo: era fondamentalmente un programma molto critico nei confronti dell’agenda Draghi e Fratelli d’Italia è stata la forza politica che in sostanza non ha sostenuto la cosiddetta linea Draghi. L’agenda Draghi era criticata duramente, direi quasi ferocemente, proprio per questa eccessiva subalternità riservata alla finanza rispetto all’economia italiana. Quindi certamente non erano previste privatizzazioni ma semmai la premier Meloni, quando era una competitor elettorale, come del resto in parte la stessa Lega di Salvini, sosteneva la necessità di rinazionalizzare alcuni settori che erano particolarmente strategici per evitare che finissero in mani straniere. Ora, tutta questa retorica mi sembra sia sostanzialmente sparita, perché appunto il Governo Meloni ha previsto nella legge di bilancio, fin dall’anno scorso, e ribadito quest’anno, una quantità di privatizzazioni per una ventina di miliardi di euro, che sono una cifra considerevole, tenuto conto che nel corso degli ultimi anni nel nostro Paese il processo di privatizzazione si era almeno parzialmente fermato dopo aver avuto una grande fiammata nel corso degli anni 90. Ora è ripartito e c’è una contraddizione in termini per un Paese che mirerebbe al sovranismo e al presidenzialismo. Secondo me, un Paese che mira a essere presidenzialista, con una forte concentrazione del potere nelle mani del Presidente del Consiglio è uno Stato debole in termini economici, è una sorta di contraddizione in termini, perché alla fine si rischia di avere un potere molto concentrato e molto forte, ma una struttura statuale, soprattutto in campo economico, che è assolutamente leggera e totalmente dominata dal capitale estero.

Quindi c’è un’evidente contraddizione. Un secondo aspetto sul perché, una ragione fondamentale, è che la Meloni si è trovata a fare i conti con la realtà del nostro Paese, dove certamente esiste un debito pubblico molto importante. E rispetto a questo debito pubblico ci sono due elementi che sono particolarmente complicati per il governo. Il primo è che uno dei cavalli di battaglia di Giorgia Meloni, come di Matteo Salvini e ancora di più di Forza Italia, è stato quello di dire “non aumenteremo il carico fiscale, non introdurremo nuove forme di tassazione, anzi ridurremo progressivamente il carico fiscale”. Ora, al di là di che cosa è stato fatto in questi termini, certamente il gettito fiscale si è progressivamente ridotto per effetto, diciamo così, di un’azione che ha alleggerito soprattutto il carico fiscale sui lavoratori autonomi. Risulta comunque abbastanza evidente che nella prospettiva del Governo Meloni ciò che è assolutamente vietato è mettere mano al sistema fiscale provando invece ad aumentare il gettito. Ed è chiaro che se non si aumenta il gettito fiscale e non si riduce la spesa bisogna fare ricorso al debito per coprire questo tipo di disavanzo. E qui nasce il secondo problema, cioè che la Banca centrale europea, dal dicembre 2023, non compra più il debito italiano come non compra più il debito europeo. Lo ha fatto dal 2012 fino al 2023 da quando appunto Draghi lanciò il famoso “Whatever it takes” che poi è stato considerato esaurito, secondo me in maniera assolutamente sbagliata.

Quindi la Meloni si trova in questa sorta di morsa per cui da un lato non può agire sulla leva fiscale, anzi deve ridurla per essere coerente con il proprio messaggio elettorale e con le sensibilità del proprio corpo elettorale, e dall’altro deve però fare i conti con un indebitamento necessario per mantenere la spesa pubblica che sta diventando sempre più costosa perché non essendoci più gli acquisti della Banca centrale europea è chiaro che lo Stato italiano deve trovare i compratori e questi compratori ovviamente vogliono dei tassi di interesse più alti. Questo è un elemento molto critico. E in questa prospettiva è abbastanza evidente che la Meloni pensi che le privatizzazioni possono essere utili per due ragioni: la prima, e più importante, è per fare cassa. È chiaro che se hai bisogno di soldi e non aumenti le tasse e il debito costa troppo, è abbastanza evidente che devi cercare di fare cassa in altra maniera e quindi per fare cassa devi vendere. Come giustamente lei diceva devi vendere le cose che hanno valore. Quindi lo Stato italiano deve vendere, come sta facendo, società che hanno un valore vedi il caso delle quote cedute di ENI, quelle di SNAM come anche il caso del Monte dei Paschi, risanato con soldi pubblici. Probabilmente dovrai vendere un pezzo di Ferrovie e un pezzo di Poste. Le Poste sono già in rampa di lancio, quindi realtà che producono utili per fare cassa. E questo però genera evidentemente un effetto profondamente negativo, che è quello intanto di perdere introiti importanti. Se lo Stato italiano riduce ulteriormente la partecipazione in ENI perde i profitti che ENI genera ogni anno, i quali sono nell’ordine del miliardo e mezzo e che, con i prezzi di energia molto alti, continueranno ad esserci e crescere. Quindi lo Stato italiano subisce una perdita secca. Oltre a questo stiamo, come lei giustamente ricordava, svendendo o vendendo pezzi strategici: energia, infrastrutture, telecomunicazioni. La Meloni in questo momento ha una linea che direi quasi thatcheriana, che però ha come motivazioni fondamentali non una visione economica neo-liberal ma la necessità di evitare di pagare alti tassi di interessi e di aumentare le tasse. L’alternativa è quindi vendere tutto ciò che c’è da vendere. Ma questo è un modo attraverso cui si indebolisce ulteriormente il peso dell’economia del nostro Paese.

Michele Manfrin: In un quadro storico, quindi potremmo, in maniera un po’ brutale, che se negli anni 80 e 90 le privatizzazioni seguivano un’ideologia di smantellamento di un’economia dove lo Stato aveva una presenza forte, oggigiorno sostanzialmente si fa soltanto per racimolare qualche soldo.

Alessandro Volpi: La dinamica è quella di fare cassa. È evidente che nel momento in cui è complicato trovare le coperture per le leggi di bilancio, sebbene l’ultima legge di bilancio per il 38% di questi 30 miliardi fa ricorso a nuovo debito e che quindi comunque è ancora viva la necessità del finanziamento del debito pubblico per cercare di contenerla, per far sì che questo 38% non diventi 50% o 55%, bisogna necessariamente fare cassa vendendo i beni pregiati. Una grande differenza rispetto al passato è anche la seguente: rispetto agli anni 80 e 90, questi beni pregiati non vengono più venduti a soggetti di tipo industriale. In quegli anni c’era un’ideologia per cui “privato è bello”: se una realtà viene gestita dal pubblico diventa un carrozzone politicista mentre con il privato diventa efficiente. L’ideologia diceva quindi “affidiamoci a dei soci privati”, che siano dei soci industriali cioè che sappiano fare meglio quello che lo Stato fa male in quel settore. Quando è partita la prima privatizzazione di Telecom l’idea era di affidare all’imprenditoria privata italiana la gestione delle telecomunicazioni al posto dello Stato. Oggi Tim, che appunto ha proseguito in questa catena di cambiamenti di proprietà, è finita nelle mani di un fondo totalmente finanziario. Le autostrade sono finite nelle mani di un fondo che è totalmente finanziario ed ENI ha ceduto le sue quote a un fondo di gestione del risparmio collettivo. Alla fine, quello a cui stiamo assistendo in questa fase di privatizzazione, che se vogliamo è ancora più pesante che in passato, è il trasferimento della proprietà in direzione di soggetti finanziari, i quali ragionano in termini finanziari, preoccupandosi prima di tutto del valore dei titoli delle società che compra. Quindi è chiaro che le società dovranno avere un valore di titolo che tende sempre a rimanere molto alto e che se sono necessari licenziamenti, o se è necessario tagliare sul piano degli investimenti infrastrutturali a vantaggio della lievitazione del prezzo delle azioni o della distribuzione dei dividendi, questo sarà fatto. E quindi questa fase di privatizzazioni è ancora più critica per molti versi rispetto al passato: i soggetti finanziari comprano le quote in ottica di breve periodo e della remunerazione del capitale in termini finanziari.

Michele Manfrin: Esatto. Infatti qui veniamo alla seconda domanda. I fondi di investimento statunitensi sono quelli che hanno più di tutti fatto man bassa in Italia, BlackRock su tutti, con Fink ricevuto a Palazzo Chigi come un proconsole dell’impero capitalistico americano. Seppure in parte ha già risposto, quali sono le implicazioni economiche e politiche di questa posizione nei confronti degli Stati Uniti a cui abbiamo ceduto pezzi veramente importanti di settori strategici del nostro Paese?

Alessandro Volpi: È chiaro che BlackRock è una società che gestisce 11 miliardi di risparmio gestito, ha quindi una marea di clienti che danno soldi a BlackRock. Esso li deve remunerare e li deve fare nel brevissimo periodo. Quindi gli interventi che fa sono operazioni che non hanno il respiro dell’investimento industriale che consente per qualche anno di guadagnare un po’ meno per poi realizzare quelle infrastrutture che sono indispensabili per un salto di qualità produttivo del Paese. Quindi è una privatizzazione in termini finanziari che alla fine riduce e priva il Paese di una capacità produttiva. Peraltro, un dato significativo, è l’insieme del risparmio gestito italiano cioè del risparmio che gli italiani mettono nelle polizze pensionistiche e nelle polizze sanitarie che finisce in larghissima parte nelle mani di fondi, come BlackRock, i quali per il 60-65% lo trasferiscono nell’acquisto di titoli del debito pubblico americano o di società americane. Tant’è vero che il risparmio gestito italiano rimane in Italia per meno del 20% della raccolta complessiva. E stiamo parlando di 2500 miliardi all’anno di questo tipo di risparmio. Quindi è evidente che questa finanziarizzazione in chiave statunitense attraverso questi grandi fondi, veicolata anche dalle privatizzazioni, è un impoverimento profondo della struttura produttiva ed economica del Paese.

Peraltro c’è un altro aspetto che secondo me si lega a quello che dicevamo prima: il collocamento di 350 miliardi di debito pubblico che scadono, più quelli nuovi, per cui non c’è più la BCE a comprarli. Da parte della Meloni c’è quindi la volontà di imbonirsi certi soggetti privati, tenendo per loro un occhio di riguardo vendendo loro i nostri asset. Quindi se devo fare un contratto per la sicurezza delle telecomunicazioni italiane penso a SpaceX, magari. Risulta quindi essere una sorta di esortazione a questi soggetti per fargli comprare un po’ di debito italiano in cambio. Ma allora i legami con queste realtà diventa ancora più profondo, perché queste realtà diventano proprietarie di una fetta importante del debito che come sappiamo è un pezzo della sovranità del Paese e hanno come contropartita una sorta di corsia privilegiata nel caso delle sempre più crescenti privatizzazioni o nel caso di appalti di particolare interesse. Questo vuol dire certamente perdita di sovranità in maniera evidente.

Michele Manfrin: Questo che sembra essere un corso molto accentuato in Italia è però evidente anche nel resto d’Europa, compresa la Germania che è un Paese che adesso versa in una enorme crisi economica. Qual è l’obiettivo degli Stati Uniti in queste operazioni nei confronti dei Paesi europei? E perché l’Europa si sta ciecamente auto sabotando per soddisfare ancora una volta l’interesse statunitense. 

Alessandro Volpi: Rispondere alla seconda domanda è difficile, nel senso che l’Europa ha scelto, nel corso degli ultimi anni, e a prescindere dalla connotazione politica, di perseguire una sudditanza atlantica quasi incomprensibile. Risulta evidente che lo scoppio della guerra in Ucraina ha partorito un disastro per l’economia tedesca, così come quella italiana, che era contraddistinta dalla possibilità di rifornirsi di gas russo a bassissimo prezzo, trovandosi priva di questo gas e a dover fare ricorso a forme altamente inquinanti come il carbone o ancora meglio, al gas liquido naturale importato dagli Stati Uniti. Perché l’Europa fa questo? Perché probabilmente ha un’intrinseca volontà suicida legata a una sorta di riflesso condizionato pavloviano di garantismo che oggettivamente non ha spiegazioni. Come dimostra la gestione complessiva della guerra russo-ucraina e come quel tipo di rapporto ha messo in ginocchio l’economia più forte di questo continente. Nell’ottica della sudditanza filo-atlantica ci metto anche questa volontà costante degli ultimi anni di evitare i rapporti con la Cina. Per la Germania la Cina era un mercato di riferimento fondamentale. Anche lì le pressioni americane hanno reso più difficili i rapporti fra Cina e Germania in termini economici, chiamando in causa le più complessive dinamiche geopolitiche. Questo è stato un danno enorme per la Germania ma lo è anche per il nostro Paese. Sono scelte difficili da spiegare in ordine razionale che non siano quelli di una totale sudditanza di chi pensa che senza gli Stati Uniti non è possibile una difesa europea, e che senza gli Stati Uniti non è possibile un’economia europea. Continuando a ritenere che l’unico mercato di riferimento sia quello americano quando per conservare quel mercato si fanno delle scelte che tagliano le gambe all’economia. La crisi ucraina ha significato nel nostro Paese un prezzo dell’energia insostenibile per le famiglie e per le imprese. Ha voluto dire fallimenti di imprese. Quindi è veramente una logica a mio modo di vedere molto incomprensibile se si usasse una razionalità illuministica. La Germania sconta di più questo momento e affronta questa crisi in maniera profonda perché è stata ed è il bersaglio vero degli americani. La Germania, a differenza del nostro Paese, era una realtà molto meno privatizzata e dove la privatizzazione aveva favorito le imprese tedesche e il capitale finanziario di banche tedesche. Questa roba non è piaciuta certamente ai grandi fondi americani che vedevano nella Germania una terra di conquista. Indebolite le banche tedesche e il sistema produttivo tedesco per poterci entrare, come io immagino faranno nel momento in cui le prossime elezioni fossero vinte dalla CDU per la paura che vinca Alternative für Deutschland, si costruirà un governo più accondiscendente nei confronti delle grandi società americane che metteranno capitale in Germania e recupereranno il tempo perso. Quindi vedo uno scenario tedesco simile allo scenario italiano, che però non si era ancora compiuto e che ha avuto bisogno, per potersi realizzare, del disastro che la Germania ha conosciuto per effetto del conflitto. La Francia, a mio modo di vedere, è un paese parzialmente diverso perché a differenza dell’Italia ha provato a resistere e sta provando a resistere alla penetrazione del capitale americano che comunque è presente. Ma in Francia ci sono anche dei colossi che provano a tenere testa, almeno in parte, ai grandi del capitalismo finanziario americano. Penso a una realtà come Amundi oppure a Crédit Agricole. Amundi riesce a raccogliere risparmio gestito, ovviamente non paragonabile a BlackRock o Vanguard, ma prova a difendersi. BlackRock, in questo momento, ha 114 milioni di clienti in Europa e cresceranno. E lo faranno anche perché avranno più difficoltà negli Stati Uniti dove la Presidenza Trump non è più così accondiscendente nei confronti dei grandi fondi, così come lo erano i democratici di Biden. E quindi trovando forse maggiori difficoltà nell’economia americana, dove emergerà la dinamica delle criptovalute. Lì ci sarà un contenimento di grandi monopolisti, appunto di BlackRock, i quali probabilmente cercheranno di trattare con Trump come già stanno facendo, ma avranno anche l’esigenza di provare a trovare un nuovo terreno più favorevole. E questo terreno per loro sarà certamente l’Europa, che quindi rimarrà ancora più schiacciata in questo tipo di quadro.

Michele Manfrin: Ultima domanda, diciamo più in chiave prospettiva. In questo quadro che ci ha descritto cosa dovrebbe fare l’Italia così come l’Europa per rimettere in moto i settori produttivi della propria economia? E, soprattutto, ne abbiamo le capacità oppure il corso distruttivo e autodistruttivo è ormai irreversibile.

Alessandro Volpi: La situazione è molto difficile perché ci sono alcuni settori nei quali ormai l’Europa è rimasta drammaticamente indietro. Del resto lo stesso rapporto Draghi ha fatto vedere con chiarezza la perdita di competitività. Persino Draghi, che certamente è storicamente un filo americano, ha sostenuto con chiarezza che la perdita di competitività dell’Europa è dipesa da questa costante sottrazione di risorse che viene dagli Stati Uniti. Tanto è vero che se si dovesse ragionare sul da farsi, la prima cosa sarebbe quella di evitare che questo risparmio europeo venga drenato costantemente dai grandi fondi. Quindi la necessità di creare dei meccanismi che siano favorevoli alla raccolta del risparmio gestito che rimanga interno ai Paesi europei. Noi invece stiamo dando sgravi fiscali a una raccolta di risparmio pensionistico che poi va a finire negli Stati Uniti. Allora forse cominciare a immaginare delle normative, delle strutture che consentano di non far defluire e trasferire questa ricchezza risulta essere fondamentale. Evitare la trasmigrazione è il primo aspetto. Poi secondo me è indispensabile una politica monetaria diversa da parte della BCE. È chiaro che noi stiamo affrontando la necessità di una transizione ecologica che vuol dire fare investimenti, vuol dire avere la capacità di spesa che non è solo investimenti infrastrutturali, ma anche la spesa per i dipendenti, per il personale che deve far funzionare quel processo infrastrutturale con semplici riforme fiscali. Anche ammettendo che ci fossero, non riusciremo mai ad avere quei famosi 800 miliardi che Draghi quantificava, probabilmente anche con una certa credibilità come necessari ogni anno in Europa per fare transizione ecologica. Qui bisogna fare come gli Stati Uniti hanno fatto finanziando un debito da 36-37.000 miliardi, stampando dollari sulla credibilità della loro moneta e sul fatto che il resto del mondo continui a usare i dollari. Ora è chiaro che nel momento in cui l’Europa non cresce perché è conflittuale e perché ha una sudditanza esplicita nei confronti degli Stati Uniti, la moneta europea non è in grado di garantire nessun tipo di effetto benefico. Ma nel momento in cui invece l’Europa avviasse un processo reale investimento in settori strategici che vanno ovviamente dalle infrastrutture all’innovazione tecnologica, alla farmaceutica, ma anche a settori assolutamente tradizionali come l’acciaio e come altre forme di materie prime di commodities, allora sarebbe diverso. Io sono convinto che, date le condizioni attuali, l’euro non si svaluterebbe e l’Europa potrebbe tornare a diventare competitiva. Quindi è chiaro che ci vuole più Stato nel finanziamento e nella gestione dei settori strategici, più debito legato a una politica monetaria europea che sia in grado di finanziare quei debiti che sono destinati a una ripresa industriale di settori decisivi. Penso per esempio al settore dell’automotive che non può continuare a dipendere dalle bizze di Stellantis, ma avrebbe bisogno di una politica europea e industriale vera. E poi evitare il drenaggio costante del risparmio ad opera di questi grandi fondi. Se si cominciassero a mettere queste condizioni probabilmente l’Europa seppur rimasta indietro, ma con ancora una ricchezza significativa, ce la potrebbe fare.